Il saggio Così è, anche se non pare, dedicato alla figura di Pietro Mignosi (1895-1937), filosofo palermitano, è un ricco e appassionato viaggio nell’animo umano, un viaggio che si sviluppa sulla linea di una felice ambiguità, in cui non sempre è chiaro cosa appartenga al pensatore e cosa invece all’autrice del libro. Maria Elena Mignosi Picone, infatti, dichiara subito, all’inizio del testo, di essersi quasi imbattuta, ormai nella maturità degli anni, nello “zio Pietro”, il cugino della madre, e di aver scoperto, fra sé e lui, una sorprendente affinità di interessi e di sensibilità. Più che uno studio “oggettivo” sul pensiero dell’autore, dunque, il testo racconta la “riscoperta di un parente” e il “ritrovamento di una persona cara” (p. 6). Ed è tramite questa affinità, questo sentire condiviso, che vengono intercettati, quasi di soppiatto, le corde nascoste del pensiero di Pietro Mignosi, della cui ampia e variegata produzione l’autrice ha saputo mettere in luce gli aspetti esistenzialmente più drammatici e poeticamente più delicati.
Come intellettuale cattolico impegnato nel rinnovamento culturale del Mezzogiorno, Pietro Mignosi seppe valorizzare la filosofia moderna, spesso considerata incompatibile con il cristianesimo. Ciò spiega il suo iniziale tentativo di conciliare l’idealismo di Giovanni Gentile con la fede cattolica, poi abbandonato in favore di una decisa adesione al tomismo, decisione che gli procurò non poche ostilità nell’ambiente culturale fascista. Probabilmente furono proprio queste ostilità a convincerlo che il pensiero cristiano è “nel” mondo ma non è “del” mondo. Convinzione che egli seppe sviluppare, come mostra efficacemente Maria Elena Mignosi Picone nel suo testo, con finezza intellettuale (nei saggi Ragione e rivelazione del 1930 e Arte e rivelazione del 1933) e potenza di immaginazione (nei romanzi Perfetta Letizia e Gioia d’Agave). Al di là delle singole opere e delle singole prese di posizione, ciò che l’autrice mette in maggior rilievo, tuttavia, è lo spirito globale di Pietro Mignosi, ossia quella forza interiore che, insieme vitale e intellettuale, gli ha consentito di declinare la molteplicità dei suoi interessi e la coerenza della sua riflessione in senso profondamente religioso.
E qui non deve essere sottovalutato lo scritto di Mignosi Il segreto di Pirandello, del 1935, in cui si sostiene che dietro la filosofia relativistica e scettica del grande scrittore agrigentino, si nasconde un anelito religioso. Se così non fosse, infatti, essere “uno, nessuno e centomila” non sarebbe un’esperienza drammatica come invece è. Essere “nessuno” o “centomila” non sarebbe un problema, in altri termini, se in fondo al cuore ciascuno di noi non aspirasse a essere “uno”, a possedere cioè un’identità personale che è tale solo agli occhi di chi ci ama. L’autrice cita opportunamente una lettera di Pirandello, in cui egli dichiara di riconoscersi nell’interpretazione che Mignosi diede della sua opera (pp. 74-75).
A questo punto ci si aspetterebbe una celebrazione dell’autore, in cui fede e ragione vanno, ottimisticamente, di pari passo. E invece non è così. Maria Elena Mignosi scorge infatti, nella figura di Pietro Mignosi, non solo «una ricca vita interiore», ma anche «un velo di malinconia» (p. 7). L’esperienza della Grande Guerra (Mignosi vi partecipò riportando anche delle ferite gravi); la morte, a soli quattordici mesi, dell’unica figlia; la propria malattia (una forma di epilessia) e infine le delusioni in ambito accademico e professionale (dovute a ostilità ideologiche di matrice fascista e massonica), segneranno per sempre non solo la breve vita (42 anni) ma anche il pensiero del Nostro. Ciò non gli tolse quella che l’autrice definisce una «coerenza tetragona» (p. 18), sia nell’ambito della vita morale che del pensiero.
La coerenza di cui si parla, tuttavia, non è ostinazione, non è attaccamento disordinato a una convinzione soggettiva. È piuttosto fedeltà alle cose e alle loro sfumature, che Mignosi esercitò in tutta la sua variegata produzione letteraria e filosofica. Una fedeltà che, a tratti, potrebbe sembrare incoerenza piuttosto che coerenza, come dimostra la valorizzazione della categoria del “paradosso”, su cui l’autrice giustamente insiste, ricordando che, per Mignosi, «è proprio nel contrario, come nel risvolto di una medaglia, che spesso si annida la verità» (p. 17).
Da qui il titolo del libro, Così è, anche se non pare, in una felicissima variazione del noto dramma di Pirandello. L’autrice vuole dirci che per Pietro Mignosi la realtà, almeno nei suoi aspetti più essenziali, ha uno spessore, e che dunque non si riduce mai a ciò che superficialmente ne cogliamo, nell’immediatezza del nostro vedere, sentire e (presumere di) sapere. “Così è, anche se non pare”, significa che cose, situazioni e persone sono sempre di più di ciò che vediamo o crediamo di sapere. Del resto, solo se la realtà è diversa da come appare è possibile la ricerca, sia essa filosofica o scientifica. Solo se la realtà non è già tutta sott’occhio c’è uno spazio per l’immaginazione e per la riflessione. È questa, probabilmente, l’intuizione filosofica più profonda di Pietro Mignosi, che l’autrice ha saputo magistralmente sviluppare, già a partire dall’indovinato titolo che ce la presenta sinteticamente.
E torniamo così al tema del “paradosso”, che non a caso compare nel sottotitolo del libro. Una pagina del filosofo danese Søren Kierkegaard (1813-1855) – anche lui morto a 42 anni – ben si adatta alla lettura che Maria Elena Mignosi Picone ha voluto dare del pensiero paradossale dello “zio Pietro”: «Non bisogna pensare male del paradosso, perché il paradosso è la passione del pensiero, e il pensiero senza paradosso è come un amante senza passione. Ma il grado più alto di ogni passione è sempre quello di volere la propria fine, e così anche la più alta passione della ragione è volere lo scandalo, anche se lo scandalo, in un modo o nell’altro, può segnare la sua fine. Questo, allora, è il supremo paradosso del pensiero: voler scoprire qualcosa che esso non può pensare» (S. Kierkegaard, Briciole di Filosofia, p. 219). Questa intensissima pagina di Kierkegaard dimostra, come scrive Maria Elena Mignosi riferendosi allo “zio”, che il paradosso non è nemico della ragione “appassionata”, in cui cioè entrano anche la vita e il cuore, ma solo della ragione “logica” e “astratta”, che presume di padroneggiare la realtà con i suoi calcoli, senza impegnare la libertà (p. 27).
Da qui l’invito di Pietro Mignosi a «dimenticare l’alfabeto», a lasciare cioè da parte le regole e ciò che crediamo di sapere, per abbandonarci all’intuizione, coltivata più nell’arte della poesia che nel metodo della filosofia (di questo l’autrice tratta soprattutto nelle pp. 55-60). Quando lo facciamo, scopriamo che il paradosso esprime una verità che va oltre la ragione ma non contro di essa. Per esempio, che si possa stare insieme solo se si sa anche stare soli; oppure che si possa parlare solo se si sa anche ascoltare ecc., è paradossale, ma non è irrazionale (p. 18). Non c’è dunque «contraddizione», scrive Maria Elena Mignosi, fra «sapienza umana e sapienza divina» (p. 95). È la contraddizione a distruggere la ragione, non il paradosso, che, invece, la alimenta. E la alimenta, secondo Maria Elena Mignosi, affondando le proprie radici nella natura religiosa dell’uomo: «ciò che per l’uomo è irrazionale non cessa di essere razionale in Dio» (p. 24). Che la vita prosegua oltre la morte, per esempio, “non pare”. Ma nella fede in un Dio che ci ama e che non può abbandonarci, “è così”. Come già aveva intuito Kierkegaard, dunque, la verità è sempre Qualcuno e mai qualcosa, ed è perciò irraggiungibile senza passione, senza cioè il desiderio di conoscere l’amato. E poiché non sempre riusciamo a comprendere, dobbiamo fidarci. La verità si concede solo a chi la cerca appassionatamente e non si lascia scoraggiare dallo “scandalo” generato dal paradosso.
Maria Elena Mignosi ha avuto il coraggio, a quest’ultimo proposito, di soffermarsi sullo “scandalo” del male e della sofferenza nella vita di Pietro Mignosi, evitando di presentarne il cattolicesimo come una tranquilla convinzione “borghese”. Al contrario, la fede di Pietro Mignosi è purificata nel fuoco della sofferenza. In particolare, è la morte della figlia ad aver lasciato una ferita indelebile e un dolore inconsolabile nello “zio Pietro”. L’autrice non arretra di fronte alla sfida che una sofferenza così grande lancia alla fede, e mette in luce il modo tormentato in cui Pietro Mignosi ha saputo affrontarla. Analizzando le poesie “Figlia” e “Miracolo”, si può infatti notare che il dolore per la scomparsa della figlia non si lascia consolare a buon mercato. È vero, come scrive Maria Elena Mignosi, che «egli non oscillò nella fede neanche di fronte a questa terribile prova» (p. 52), ma è anche vero che, come abbiamo già ricordato, questo evento coprirà la sua vita, il suo pensiero e persino il suo sguardo, di un «velo di malinconia». Da qui, probabilmente, il genio della sua poesia. La poesia, infatti, è quasi sempre figlia di un dolore. E il dolore, è innegabile, apre gli occhi, rende più lucido lo sguardo, oltre a evidenziare aspetti della vita che a una condizione di benessere rimangono nascosti. Il dolore, inoltre, rende solidali, generando quella compassione che, meglio di ogni altro sentimento, evidenzia il bisogno di salvezza che ha il nostro mondo. Il merito principale del libro Così è, anche se non pare, è di avercelo ricordato.
Luciano Sesta